La fama di “potere”: la Roma maledetta di Caligari, Sollima, Mainetti e D’Innocenzo bros.

La romanità periferica da qualche tempo è lo scenario prescelto da registi giovani e non della scena cinematografica italiana. Cominciai ad avvicinarmi a questo mondo nel 2016 quando vidi per la prima volta lungometraggi del calibro di Non essere cattivo (2015) del maestro Claudio Caligari, di Suburra (2015) del regista Stefano Sollima, di Lo chiamavano Jegg Robot (2015) del talentuoso Gabriele Mainetti e ultimo ma non meno importante, La terra dell’abbastanza (2018) dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo.

Vidi Non essere cattivo per la prima volta in piazza San Cosimato durante una delle manifestazioni del Piccolo Cinema America,  nel cuore della romanità trasteverina. Era il 4 giugno del 2016, Caligari era già volato in cielo, Alessandro Borghi e Valerio Mastandrea ne ricordano i momenti salienti e la bellezza di una personlità così fuori dal comune e dedita al proprio lavoro.  Un uomo schifo verso i riflettori che aveva realizzato con enorme fatica due lungometraggi: Amore Tossico (1983)  e L’odore della notte (1998) , la cui vita fu stroncata prima che potesse tastare con mano la rarità del suo terzo e ultimo lavoro, Non essere cattivo, a segnare il compimento della sua trilogia.

Un film epico che riprende e tratteggia le linee della poetica pasoliniana in modo ineccepibile, scegliendo l’ambientazione ostiense dei primi anni Novanta già presente nel primo progetto di Amore Tossico,  investendola di tematiche alte quali la dipendenza dalle persone, quella che si instaura tra i due protagonisti: Cesare (Luca Marinelli) e Vittorio (Alessandro Borghi), due giovani romani,  dannati dall’adolescenza,  che vivono un amore fraterno in cerca di nuove strade, col volto e il corpo corroso dalla tossicità, risultante dal male distruttivo dell’uso spasmodico di stupefacenti. Due giovani, la cui spensieratezza va via via spegnendosi a causa del  dolore e della morte. In quel preciso istante cominciai ad avvicinarmi ad attori quali Alessandro Borghi e Luca Marinelli, e da lì non ho più mollato la presa. Ho continuato imperterrita a scegliere e vivere le storie in cui questi due attori coprivano i panni di protagonisti della Roma dei sobborghi, dolente e subdola.

Seguì Suburra del regista Stefano Sollima e Lo chiamavano Jegg Robot del giovane regista Gabriele Mainetti.  Fabio Cannizzaro detto Lo Zingaro di Mainetti interpretato magistralmente da Luca Marinelli e il numero 8 di Sollima alias Aureliano Adami di cui veste sapientemente i panni Alessandro Borghi, sono due maledetti della Roma corrotta. Due bruti che sotto le vesti di giacche di pelle, camicie con colletti alti e tatuaggi celano una fragilità nitida che scava nelle profondità del loro passato. Due protagonisti atipici di quella che può essere definita la FAMA, la bramosia di potere.

Nel 2018 è l’opera prima dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, La terra dell’abbastanza a destare il mio interesse verso una tale tematica. Trattasi di un lungometraggio intenso che inscena la romanità cruda delle borgate unendola all’amore di una madre per suo figlio, alla loro incomunicabilità, al dolore, all’amicizia fraterna tra due giovani in corsa per il potere: Mirko interpretato da Matteo Olivetti e Manolo di cui veste i panni  Andrea Carpenzano. Due giovani accomunati dall’abitudine al male, fino a toccare il suo punto più estremo,  la morte. Il riferimento a Non essere cattivo è evidente, seppure il film gode di una sua unicità. Matteo Olivetti riesce perfettamente ad incanalare nel suo sguardo la rabbia e il dolore di un giovane incompreso che ambisce ad una vita diversa, migliore, anche a costo di perderla.

Ad accomunare questi lungometraggi, diversi per genere ma con evidenti tratti comuni è la linea tragica e drammatica della BORGATA, sia nel senso di periferia romana ma anche di zone periferiche dell’anima. Una tragicità a tratti simile: quella di Ostia, di Cesare e Vittorio e Aureliano, di Tor Bella Monaca dello Zingaro Fabio Cannizzaro e  quella di Mirko e Manolo. Storie diverse, storie di genere, di personaggi randagi e corrotti dal sistema. Film che innalzano la romanità mostrando le anomalie di ieri e di oggi della città di Roma, con l’occhio clinico di registi tutti italiani.

Francesca Accurso

Image-1